Tutta la terra ha veduto la salvezza del nostro Dio
Lectio divina su Gv 1,1-18
Invocare
Padre santo, tu che sei la Luce e la Vita, apri i miei occhi e il mio cuore perché io possa penetrare e comprendere la tua Parola.
Manda lo Spirito Santo, lo Spirito del tuo Figlio Gesù sopra di me, perché io accolga con docilità la tua Verità. Donami un animo aperto e generoso, perché nel dialogo con te io possa conoscere e amare il tuo Figlio Gesù per la salvezza della mia vita e possa testimoniare il tuo vangelo a tutti i miei fratelli. Per Cristo nostro unico Signore. Amen.
Leggere
1 In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2 Egli era, in principio, presso Dio: 3 tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5 la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. 6 Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8 on era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10 Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11 Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. 12 A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13 i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
15 Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». 16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. 17 Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18 Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
– Silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.
Capire
Giovanni scrive molti anni dopo dei Sinottici e la sua opera è un cammino meditativo-fattivo della Parola.
Questa sua meditazione fattiva della Parola, apre il quarto Vangelo con questo straordinario brano poetico, che non è altro che un inno alla Parola di Dio rivelatrice e operante nel mondo. È una sintesi meditativa di tutto il mistero del natale, perché il bambino di Betlemme è la rivelazione di Dio, la verità di Dio e dell’uomo, e riflettendo su questo evento siamo in grado di capire chi è colui che nato e chi siamo noi.
I primi tredici versetti, che costituiscono la prima parte dell’inno, ci presentano il Verbo dalla sua origine: siamo nell’ambito della relazione tra le Persone Divine. La Parola di Dio, ad un certo momento, entra in contatto col mondo, con l’umanità, si fa Luce cioè si rende visibile a noi, incarnandosi.
Tale evento viene cantato in una irruzione di gioia al versetto 14, in cui comincia la seconda parte del Prologo (vv. 14 al 18), ove viene evidenziata la possibile accoglienza del Verbo per diventare figli di Dio: la «buona novella» della figliolanza divina si trova proprio al centro dell’inno (vv. 12-13).
Tuttavia questo dono di Dio, totalmente gratuito, molti non lo vedono o lo rifiutano. Ci sono però anche coloro che se ne accorgono e lo accettano. E’ l’incarnazione per amore degli uomini fino alla fine, senza tirarsi indietro, rispettando la libertà dell’uomo di crocifiggere l’Autore della vita.
Meditare
v. 1: “in principio…”. E’ l’inizio del Vangelo. E’ l’inizio del cammino biblico. Qui Giovanni inizia la sua opera riconducendoci all’AT dove i temi di creazione, di luce e tenebre sono ripresi dalla Genesi (1,1). Questo non è però, come nella Genesi, il principio della creazione, perché la creazione viene nel v. 3. Il principio si riferisce piuttosto al periodo prima della creazione ed è una designazione, più qualitativa che temporale, della sfera di Dio.
“era il Verbo”. Qui troviamo l’affermazione di un’esistenza che precede questo inizio: fin da questo principio «esisteva» il Verbo.
“Verbo”: è la Parola, cioè il mezzo attraverso il quale ci si esprime. Il testo afferma che in principio, al momento dell’atto creatore, c’era la Parola, cioè la comunicazione che Dio fa di se stesso.
Nell’ambiente filosofico greco questo termine indica la «parola che porta un senso», che lo svela pienamente. Mentre, nell’ambiente giudaico, la parola, dabar, come tale appartiene alla sfera di Dio; essa rivela l’essenza stessa di Dio.
Il verbo greco utilizzato: ‘en (essere, esistere) è tradotto in italiano, per rendere l’idea, aggiungendo un già, che possiamo dare l’idea di questa lettura: All’inizio (della creazione) già c’era il Verbo che con il suo imperfetto esprime in modo particolare l’esistenza.
Nel suo Prologo, Giovanni riformula l’identità del Verbo alla luce di categorie veterotestamentarie.
“Il Verbo era presso Dio”. La preposizione greca pròs esprime l’idea di innanzi, presso, in relazione a e viene usata per indicare l’esistenza del Logos in relazione a Dio. Si può intendere: Era in compagnia di Dio (dando a pròs un senso statico); oppure: Era verso Dio, cioè in relazione con Dio (in questo caso si conserva a pròs il suo senso di moto).
Nella formulazione originale pròs tòn thèon l’articolo (tòn) specifica che si tratta del Padre. Il Verbo partecipa della sua vita come persona distinta orientata a lui.
“Il Verbo era Dio”. Non si può indagare in che modo la Parola giunse all’esistenza. Più avanti Gesù dirà: “Io Sono” un richiamo a Es 3,14-15 e che Giovanni citerà più volte.
In queste pochissime parole Giovanni descrive un accenno al mistero della relazione Padre-Figlio, nell’unicità di Dio che nel testo greco Theòs én o’ logos: l’uso di theòs, senza articolo, esprime meglio la partecipazione alla natura divina. Il Logos possiede la natura divina pur non essendo il solo ad averla.
v. 2: “Egli era in principio presso Dio”. Qui viene ripreso il v. 1 ponendo l’attenzione del lettore nuovamente verso la creazione. Giovanni ripetendo che il Verbo era presso Dio sembra voler sottolineare che l’atteggiamento fondamentale del Verbo, il suo essere verso Dio, dovrà servire da modello rispetto a tutto ciò che nascerà mediante la Parola.
v. 3: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui…”. Dopo aver presentato il Verbo nella sua relazione immediata con Dio, ora lo sguardo è concentrato sulla relazione del Verbo con il mondo. Già l’AT collegava la creazione del mondo alla parola di Dio o alla sapienza divina.
Ora, affermando che tutto avviene per mezzo del Verbo, l’evangelista vuole dire anche che tutto mediante il Verbo prende senso.
“Senza di lui nulla è stato fatto”. Attraverso quest’espressione viene rafforzato il pensiero precedente. Il mondo, sia fisico che umano, riflette Dio Padre in quanto è fatto secondo il Figlio di Dio incarnato, che è l’immagine di Dio.
Il verbo egèneto esprime molto bene la creazione di ogni cosa dal nulla (Viene usato in Gen 1 per descrivere la creazione). È sostanzialmente diverso da ‘én, ed è tipico di tutto ciò che non è Dio.
v. 4: “In lui era la vita”. Dopo aver dichiarato la presenza efficace del Verbo in tutto ciò che è stato fatto, l’opera del Verbo viene ora caratterizzata dal dono della vita.
Possiamo leggere questo versetto così: Ciò che aveva avuto origine in lui (nel Verbo) era vita. La vita di cui Giovanni parla nel suo vangelo non è semplicemente quella fisica, ma una vita qualitativamente superiore e piena.
In altri passi del Vangelo viene anche identificata con Gesù stesso. L’identificazione di questa vita con la luce degli uomini nella riga seguente fa pensare che si intenda vita eterna.
“La vita era la luce degli uomini”. Il Verbo, entrando in rapporto con gli uomini, manifesta ciò che egli è per essi, cioè la luce. Il Verbo risplende come luce di vita.
Grazie al Verbo gli uomini vedono la luce che li guida alla pienezza della vita. Giovanni riprenderà questo pensiero su Gesù al cap 8: «Io sono la luce del mondo, chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
v. 5: “la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”. Qui viene sintetizzato l’opera del Verbo e dei suoi avversari. Giovanni medita sulla luce che è il Verbo nella sua funzione d’illuminare tutta l’umanità che giace nelle tenebre.
“La luce splende nelle tenebre”. La frase si presta a diverse interpretazioni. Possiamo leggervi un’allusione alle infedeltà d’Israele che i profeti hanno denunciato ripetutamente e sulle quali Dio trionfava sempre nuovamente. Inoltre abbiamo un’anticipazione degli eventi accaduti durante la vita di Gesù fino alla sua vittoria finale con la risurrezione.
Con il termine “tenebra” s’intende anzitutto quanti sono lontano da Dio, cioè non ancora illuminati dalla luce divina.
Questa parola possiamo intenderla come il disorientamento interiore, cioè quando si è confusi e non si sa dove e come andare. Tale disorientamento può diventare un sistema di vita, fino ad arrivare a non sapere più il vero perché delle cose, lasciandosi così trascinare dagli impulsi e dalle situazioni.
Giovanni con queste poche parole, ci consegna un messaggio fondamentale: il non riconoscere Gesù fatto uomo fra noi, come senso ultimo della realtà, che dà valore ad ogni cosa è a tutti gli effetti un essere nelle tenebre, senza alcun punto di riferimento.
“Le tenebre non l’hanno vinta”. Il verbo greco katalambànein è difficile da tradurre; i traduttori sono orientati su quattro linee: “afferrare, comprendere”, “accogliere, ricevere, accettare”, “sorprendere, vincere”, “dominare”.
Una lettura che possiamo dare è che gli uomini non hanno compreso la prima manifestazione del Verbo avvenuta nella creazione, ma anche che la Luce sfugge ai loro tentativi di conquistarla e di dominarla.
vv. 6-7: “Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone…”. Letteralmente: ci fu. Questo non è l’ ’én usato per la creazione nei vv. 3-4: Giovanni Battista è una creatura.
Qui viene introdotta la testimonianza di Giovanni. Forse è tardivo questo versetto ma è necessario per non confondere, fin dall’inizio, il Battista col Messia. Tra i due c’è una differenza radicale che separa “colui che era fin dal principio, rivolto verso Dio” da quest’uomo, che è venuto da parte di Dio per essere testimone.
Giovanni rende solo testimonianza alla luce davanti alle autorità giudaiche (1,19-34), davanti al popolo d’Israele (1,31-34) e davanti ai propri discepoli (1,35-37).
L’ultima volta che Giovanni è menzionato nel vangelo, è quando viene elogiato per essere stato un testimone fedele: “Tutto ciò che egli disse di Gesù era vero” (Gv 10,41).
Giovanni diventa «figura» di tutti i testimoni che nel corso della storia hanno ricevuto la missione di testimoniare nel mondo la presenza della luce divina: la sua figura e il suo messaggio assumono una portata universale.
v. 8: “Egli non era la luce…”. Il Battista è un testimone della luce, ma non la luce. In 5,35 Gesù chiama Giovanni Battista “lampada che arde e risplende”; ma Gesù stesso è luce. L’evangelista stima così tanto il Battista che parla di lui come l’intermediario autorizzato fra il Verbo e l’umanità. Giovanni Battista deve testimoniare che colui che Israele attendeva era presente. Giovanni sa che Costui gli è superiore in dignità (1, 27).
v. 9: “Veniva nel mondo la luce vera”. Il v. 9 segna l’inizio di un nuovo quadro della storia di Dio che si comunica, attraverso la rivelazione del Verbo, nella concretezza dell’incontro fra il Verbo-Luce e gli uomini.
Viene usato l’aggettivo “vero” che tornerà spesso nel vangelo: vero pane (6,32), vera bevanda (6,55), vera vita (15,1). Quest’aggettivo in ebraico caratterizza “un timbro divino” (cfr. 7,28; 17,3). In questo modo, Giovanni afferma che soltanto nella rivelazione avvenuta in Gesù, attraverso la sua Parola e il suo operare, viene data a tutti gli uomini l’autentica comprensione della loro esistenza.
Il Verbo è qui qualificato come luce vera. La posizione del Verbo è precisata non solo nei confronti di Giovanni, che era soltanto il testimone della luce, ma anche nei confronti di tutte le false luci che sarebbero apparse nel mondo: esse non sono altro che ingannevoli idoli, mentre solo il Dio vivente è veritiero.
“quella che illumina ogni uomo”. Con questa espressione Giovanni si riferisce a ciascuno uomo nella sua singolarità: il Verbo viene incontro a ciascun uomo nello scorrere del tempo.
v. 10: “Egli era nel mondo…”. Mondo, «kosmos»: è un termine molto importante; per tre volte viene ripetuto nei versetti 10-11, ma con sfumature diverse.
Inizialmente Giovanni parla del mondo nel senso di universo creato da Dio, come era nel pensiero dei greci. Nella citazione successiva, il termine allude non solo all’universo fisico ma include il mondo umano. Giovanni non fa altro, quasi a riprendere lo stile del Salmista, di far riflettere ogni singola persona se accettare o meno la Luce.
L’accoglienza della luce, mediante la fede, porta la vita divina e la salvezza. Il mondo diventa peccatore soltanto dal momento in cui rifiuta la rivelazione di Cristo e non riconosce la gratuità del dono di Dio. Non viene data nessuna giustificazione del rifiuto di questa luce: c’è solo la costatazione del suo rigetto.
L’affermazione del fallimento dell’incontro fra il Verbo e gli uomini non contraddice ciò che è stato dichiarato precedentemente, cioè che le tenebre non hanno arrestato la luce: all’evangelista interessa sottolineare il paradosso del rifiuto che la creatura oppone al suo Creatore.
v. 11: “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto”. La TOB traduce: È venuto nella sua proprietà, in casa propria… Verosimilmente Israele rappresenta storicamente l’umanità che tutta intera appartiene al Creatore (cfr. Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,18; Sal 135 [134], 4). Il versetto vuole precisare ulteriormente la natura del rifiuto opposto al Verbo. “I suoi” sottolinea l’insieme degli uomini.
“Venne fra i suoi”. Quest’affermazione richiama la presenza del Verbo nel mondo che egli ha creato. Il Verbo è venuto nella “sua proprietà”. Il termine sottolinea una relazione speciale fra due persone o fra una persona e un gruppo. Possiamo richiamare alla mente le allusioni di Gesù circa la relazione che unisce il pastore alle sue pecore, per indicare il rapporto generato tra Lui stesso e i suoi discepoli.
Dopo aver accennato al “mondo” in generale, Giovanni sembra che qui voglia ricordare il comportamento speciale di Dio verso il suo popolo eletto, che si mostra infedele.
v. 12: “A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio…”. Diventare figli di Dio implica una capacità che viene da Dio. È riferito agli uomini che hanno riconosciuto nel Verbo il principio della loro esistenza e il senso della loro storia, lasciandosi illuminare da lui.
“A quelli che credono nel suo nome”: la formula è stata applicata frequentemente a Gesù Cristo nel Nuovo Testamento; è un’espressione tipica dell’Antico Testamento che si riferisce a Dio. Credere nelo suo nome è lo stesso che credere in lui come messia e Figlio di Dio.
“Egli ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Abbiamo anzitutto un dono, un dono del Verbo all’uomo. Quale? un potere: il potere che dona a coloro che credono evidentemente non può trattarsi di una facoltà autonoma, sottolinea, invece, la dignità che comporta il divenire figli di Dio.
Nell’Antico Testamento l’espressione figlio di Dio è usata normalmente al singolare. Da principio viene applicata esclusivamente al re oppure a Israele, in quanto popolo eletto, per indicare il legame particolare di protezione e di benevolenza che unisce a Dio chi è designato come suo figlio. In questo passo i figli di Dio sono tutti gli uomini che credono in Dio, Israeliti o no.
v. 13: “Non da sangue”. L’uomo non diviene figlio di Dio con la procreazione carnale, come ci ricordano le parole del Battista: “Dio può suscitare da queste pietre dei figli ad Abramo” (Gv 8,37-39). E non avviene neppure in forza di un «volere della carne», cioè in forza del desiderio che ha la creatura mortale di sopravvivere alla morte attraverso la propria discendenza.
Possiamo pensare che c’è coincidenza tra l’azione dell’uomo che accoglie il Verbo e quella di Dio che genera. Queste due azioni formano una cosa sola, nella diversità dei rispettivi ruoli. È importante tenere presente il passo precedente dove si diceva che il Verbo illumina ogni uomo. Ora infatti sappiamo che questa illuminazione, nella misura in cui viene accolta, produce la filiazione divina.
“Da Dio sono stati generati”. Il senso fondamentale è che la figliolanza divina è opera esclusiva di Dio. Attraverso le espressioni seguenti il ritmo dell’inno si costruisce in un crescendo. Giovanni qui distingue la generazione che nasce secondo lo spirito in opposizione alla nascita carnale. Più tardi, sarà nel colloquio con Nicodemo che sarà chiarificato (3,1-11).
v. 14: “E il Verbo si fece carne…”. Questa è una delle affermazioni più incisive di tutto il vangelo. La parola “carne” designa la natura umana nella sua debolezza e fragilità. Il Verbo entra nel tempo. Colui che esisteva da tutta l’eternità è entrato nel tempo e nella storia umana.
Questo è il mistero dell’Incarnazione per cui la Parola eterna assunse la nostra identica natura umana, divenendo in tutto simile a noi, fatta eccezione per il peccato (Eb 4,15). Cioè in tutto, escluso ciò che era incomprensibile con la divinità.
“e venne ad abitare”. Letteralmente “Ha posto la sua tenda”. Per esprimere questo mistero, Giovanni ha deliberatamente scelto l’immagine biblica della tenda: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi”. Il vocabolo evoca la tenda (skenè) del deserto (Es 25, 8-9) costruita perché Dio potesse “abitare in mezzo a loro”.
Il tempio di pietra di Sion (come si dirà esplicitamente in Gv 2, 18-22) è ora sostituito dalla “carne” di Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con noi.
A partire dal versetto 14 la parola Verbo sparisce dal Vangelo. Il Vangelo è una testimonianza non alla Parola eterna ma alla Parola fatta carne, Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
v. 15: “Giovanni gli dà testimonianza e proclama…”. Questo versetto riprende la testimonianza di Giovanni Battista, la cui missione nei confronti della luce è stata descritta nella prima parte del prologo. Adesso la sua testimonianza viene proclamata.
La missione della Parola nel mondo fu precisamente quella di porre gli uomini in grado di divenire figli di Dio, partecipi cioè della vita divina e di esserne testimoni.
“Avanti a me”. Gesù Cristo è al di sopra di Giovanni. L’espressione ha una sfumatura qualitativa. La testimonianza del Battista ribadisce il primato di Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo” di lui.
“Prima di me egli era”. Giovanni Battista, personaggio storico e ispirato, ha qui la funzione confermare a tutti che quest’uomo venuto «tra noi» (1,14) era precisamente il Verbo di cui si è parlato fin dall’inizio del prologo.
v. 16: “Noi tutti abbiamo ricevuto”. Tutti noi partecipiamo alla pienezza di grazia, propria dell’Unigenito di Dio. L’evangelista non vuole escludere nessuno. La comunità confessa la sua fede. Questa è un’affermazione giubilante di tutti quelli che hanno creduto in Cristo e perciò hanno la capacità di crescere nella loro realtà di figli di Dio. Il Figlio di Dio offre all’uomo “la grazia e la verità”.
“Grazia su grazia”. (Charis antì charitos): tradotto anche: “Amore in luogo di amore”; questa idea di sostituzione, come è stata sostenuta dai Padri greci, significa implicitamente la hesed di una nuova alleanza in luogo della hesed del Sinai.
Indica un’esperienza vissuta e cioè la capacità di ricevere dalla sovrabbondanza di Dio benevolenza-amore. Si vuole sottolineare non tanto un succedersi nel tempo cioè “grazia dopo grazia” quanto piuttosto un aumento in intensità: si tratterebbe di un accumulo di grazie, che rivela la continuità dell’azione di Dio nella storia.
Paolo ai Colossesi svilupperà quest’abbondanza di grazia (cfr. Col 2,9-10).
v. 17: “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo”. La “Legge”, come parte integrante dell’alleanza, è tutto il complesso di istruzioni che Dio ha consegnato al suo popolo per mezzo di Mosè. Gesù, che è il Figlio di Dio, viene a proporre un’alleanza tra dei figli e il loro Padre, basata sull’accoglienza e la somiglianza del suo amore.
Questa espressione “grazia e verità” significa un amore generoso che si dona. Esse vengono abbinate come dono proprio dell’unigenito del Padre.
Quest’amore non nasce dal bisogno dell’uomo, ma lo precede, un amore addirittura che precede la creazione stessa e ne è la conseguenza.
Per Giovanni la Legge è già un dono di Dio, una grazia che si espande al mondo intero, tuttavia egli sottolinea la profondità della verità rivelata da Cristo: “in” e “mediante” Gesù Cristo, Figlio unico, Dio si rivela come Padre.
v. 18: “Dio, nessuno lo ha mai visto”. In tutte le esperienze religiose anche dell’Antico Testamento, troviamo il desiderio di vedere Dio faccia a faccia, ma, salvo eccezioni, quest’aspirazione deve attendere il Cielo per potersi realizzare. Giovanni evidenzia che Cristo permette di superare l’impossibilità di vedere Dio.
“Il Figlio unigenito”. Il mediatore di questo accesso alla gloria è Gesù Cristo. Unigenito non soltanto per sottolineare che Gesù è lo stesso Figlio unico di Dio, ma anche che è lo stesso Verbo incarnato (1,1). Giovanni aggiunge che l’Unigenito è lui stesso Dio: Dio solo può rivelare Dio.
“Nel seno del Padre”. L’espressione sottolinea non solo la tenerezza e l’intimità dell’amore tra il Padre e il Figlio, ma anche la finalità del rapporto: il Figlio unico è rivolto verso il cuore del Padre. Possiamo notare che, come nel v. 14, il termine Dio viene sostituito da quello di Padre.
“è lui che lo ha rivelato”. Soltanto il Figlio unigenito, che condivide senza limiti la vita del Padre, può condurre gli uomini alla conoscenza e alla vita. Con tutto ciò che è, che fa e che dice, Gesù sarà il rivelatore e l’espressione di Dio e si rivolgerà ai discepoli dicendo: Il Padre mio e il Padre vostro, il Dio mio e il Dio vostro (20,17).
– Per la riflessione personale e il confronto:
Quali reazioni da parte nostra al mistero del Natale?
Ci riscopriamo veramente felici perché il Salvatore è nato anche per me / per noi?
Come Cristo occupa un posto nella mia vita personale?
Il Natale esprime la gioia e la bellezza dell’accoglienza? Come vivo questo dono?
Come non riamare Colui che ci ha amato tanto?
Pregare
Raccogliamoci in silenzio ripercorrendo la nostra preghiera e rispondiamo al Signore con le sue stesse parole (dal Sal 97):
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!
Cantate inni al Signore con la cetra,
con la cetra e al suono di strumenti a corde;
con le trombe e al suono del corno
acclamate davanti al re, il Signore.
Contemplare-agire
Nel silenzio del cuore incontra il Signore. Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché, conoscendo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili.
Ripeti spesso e vivi questa Parola: il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.