O
Dio, creatore e Padre di tutti, donaci la luce del tuo Spirito, perché nessuno
di noi ardisca usurpare la tua gloria, ma, riconoscendo in ogni uomo la dignità
dei tuoi figli, non solo a parole, ma con le opere, ci dimostriamo discepoli
dell’unico Maestro che si è fatto uomo per amore, Gesù Cristo nostro Signore.
Egli è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i
secoli dei secoli.
ascolto della Parola (Leggere)
Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: «Sulla
cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e
osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché
essi dicono e non fanno. 4Legano, infatti, fardelli pesanti e
difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non
vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno
per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le
frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi
seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di
essere chiamati «rabbì» dalla gente. 8Ma voi non fatevi chiamare
«rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E
non chiamate «padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre
vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare «guide», perché uno
solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà
vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si
umilierà sarà esaltato.
penetri in te e vi metta delle salde radici.
il Testo
Abbiamo
da poco celebrato la solennità di Tutti i Santi dove Gesù ha annunciato
attraverso una serie di “beati”, la buona notizia dicendo che la felicità è
possibile.
Adesso,
spostandoci al cap. 23 ci incontriamo con una serie di “guai” (il lato negativo
delle beatitudini). La raccolta dei “guai” mette in evidenza la situazione
negativa di chi non è disponibile, di chi, cioè, si chiude all’opera della
grazia. Il nostro brano non parla subito dei guai ma ci fa capire a chi è
indirizzato il messaggio: scribi e farisei, cioè un gruppo fortemente
religioso. La parola “fariseo” significa “separato”, nel senso che, per la loro
esigenza di perfezione, si distinguevano dalla grande massa. Oggi lo usiamo
simbolicamente ma in senso negativo: dire ad una persona “sei fariseo” equivale
a dirgli “sei falso”. Questo significato però non corrisponde al vero, diremmo
oggi è una “fake news”, per cui dobbiamo fare lo sforzo di liberarci da questa
abitudine linguistica. Infatti, nel linguaggio dei tempi di Gesù, il termine è onorifico
e caratterizza persone molto religiose, impegnate, serie.
Il
discorso sui guai in questo capitolo è duro, e può meravigliarci di trovarlo
sulla bocca di chi con misericordia perdonava i peccatori, mangiava con loro e
li faceva sentire amati da Dio, anche se non meritavano tale amore. Gesù
attacca i legittimi pastori del suo popolo, i dirigenti, quelli che erano
riconosciuti esperti delle sante Scritture, che erano ritenuti maestri e
modelli esemplari per i credenti. Sia però chiaro che queste sue parole vanno a
colpire vizi religiosi non solo giudaici ma anche cristiani!
A
noi, attraverso questo brano che ci fa da specchio, ci è chiesto di capire
quale verità vivere nella vita di tutti i giorni. Se lasciarci plasmare dalla
sua Parola per essere testimoni del suo amore oppure lasciarci plasmare dal
nostro io.
sulla Parola (Meditare)
v. 1: Allora Gesù si rivolse alla
folla e ai suoi discepoli
Il
v.1 è introduttorio allo stesso discorso che Gesù indirizza alla folla e ai
discepoli, quindi a tutti noi, e che ritroviamo in comune nei vangeli
sinottici. Matteo e Luca fanno menzione specifica dei discepoli. Infatti, Gesù
parlando alle folle lancia un messaggio agli scribi e ai farisei denunciandone
il comportamento. Una dinamica particolare già usata altre volte, quando nel
discorso della montagna Gesù, parlando alle folle, dava un messaggio ai suoi
discepoli. Quindi, quanto accade è un discorso che Gesù rivolge alla comunità,
anche se questo particolare è esplicito nei vv. 8-12.
vv.
2-3: dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei.
Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro
opere, perché essi dicono e non fanno.
Questo
è l’esordio del discorso di Gesù. Che cos’è questa cattedra? Ai tempi dell’Evangelista
e anche successivamente, la cattedra di Mosè è una grande sedia in pietra. Il
suo è un posto di prestigio, riservato a quanti si onoravano del titolo di
rabbi. Da quel seggio scribi e farisei continuavano l’opera del grande
legislatore Mosé: proclamare la Parola contenuta nella Torah: “Quanto il
Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo” (Es 24,7).
Questo
purtroppo non è accaduto (succede anche oggi) perché non hanno ascoltato il
Signore e la sua Parola. La pratica della legge mosaica va bene. Gesù non la
discute. È il modo di attuarla che non va e da ciò bisogna dissociarsi e
ritornare all’originale fedeltà a Dio e alla sua Parola.
Per
ritornare a Dio e alla sua Parola occorre ascoltare, occorre umiltà. Possiamo
dire che la cattedra di Mosé è quella dell’umiltà e non un luogo ben
determinato come il Tempio o il luogo dove adorare Dio (cfr. Gv 4,23-24).
Sedersi in cattedra richiama a questa identità, a questo servizio di profeta,
sacerdote e re. Sedersi in cattedra significa essere in sintonia con Dio. Mosè
ne fu degno. Scribi e farisei no!
Chi,
come gli scribi e i farisei, usurpano questo trono di servizio per farne uno
strumento di potere, privilegio e violenza, violenta sarà quella stessa parola
di cui si ritengono custodi. Infatti ciò che conta non sono le parole, ma le
opere (“dicono e non fanno”).
La
cattedra, infine, è la croce di Gesù dove Gesù Maestro insegna morendo per
amore ripreso alla fine del brano.
v.
4: Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle
della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito.
Gesù
descrive meglio il comportamento. Con il loro modo di fare si sono arrogati il
diritto di interpreti della Legge (cfr. Lc 11,46), appesantendola con minuziose
prescrizioni, che avevano lo scopo di garantirne l’esatta osservanza. In questo
modo la Torah data come insegnamento da custodire, da amare, da vivere. Invece
ad un tratto si è ritrovata ad essere piena di precetti a dismisura. Questa
forzatura obbligata era una incombenza difficile da praticare perché dietro non
c’è servizio umile, d’amore ma solo potere. Gesù già aveva fatto il suo invito:
“Venite a me voi tutti che faticate e vi piegate sotto un pesante fardello, e
io vi libererò da quel peso” (11,28).
vv.
5-7: Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i
loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei
banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche
di essere chiamati «rabbì» dalla gente.
Qui
sta l’orgoglio e l’arroganza degli scribi e dei farisei: quanto fanno non è
amore ma è solo e puro narcisismo per essere ammirati dalla gente accompagnati
da gesti rituali vuoti e privi di senso. Questo non è operare secondo il cuore
di Dio. Non descrive quell’essere elevati all’altezza dell’amore di Dio.
L’amore di Dio non chiede ammirazione ma solo umiltà. Forse ogni essere umano
ha bisogno di stima e di ammirazione. Per l’uomo purtroppo che ricerca questo
si apre un bivio: o scopre davvero la sua identità nella stima infinita, nell’amore
infinito che Dio ha per lui, e per conseguenza la comunica a quanti incontra
nella sua quotidianità, oppure rimarrà a mendicare cercando in tutti i modi di
farsi vedere, di mettersi in mostra. E lo carpisce attraverso quelle cose che
lo rendono in qualche modo ammirevole. Quindi quei talenti che possiede non li
usa per amare e servire ma per essere ammirato, per sentirsi qualcuno.
Il
versetto 7 si conclude con il compiacersi di farsi chiamare “rabbi”, un termine
che significa “grande” usato per indicare il maestro. Dietro a questa
espressione, dice Gesù, c’è molta finzione religiosa: un brutto vizio che copre
intenzioni squallide e menzognere!
vv.
8-10: Ma voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e
voi siete tutti fratelli.
Ora
Gesù si rivolge direttamente ai discepoli insegnando loro una linea spirituale,
la linea dell’umiltà. Lo fa ricordando che, se qualcuno ha un compito nella
comunità cristiana, come quello di insegnare è solo un fratello tra fratelli,
perché il vero insegnamento viene dall’alto, dal Padre mediante il Figlio
attuandosi nello Spirito Santo. C’è un solo maestro interiore a ciascuno: è lo
Spirito Santo che ci suggerisce la verità tutta intera e tutti siamo
teodidatti, dice Giovanni, cioè, ammaestrati da Dio direttamente (Gv 6,45; cfr.
Is 54,13).
Un
particolare che risalta tra i versetti è che per la prima volta Gesù si
dichiara e definisce Maestro e guida. Fino ad ora erano altri che gli davano
l’appellativo di Maestro. Infatti, “Nessuno può insegnare e nemmeno operare, né
raggiungere le verità conoscibili senza che sia presente il Figlio di Dio” (San
Bonaventura).
E
non chiamate «padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre
vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare «guide», perché uno solo è la
vostra Guida, il Cristo.
Il
titolo di “padre” usato per gli anziani e per i defunti era un segno di
rispetto. In chiave spirituale non ha senso perché risulta un abuso.ù
Gesù
indicando il Padre indica il principio, l’origine della vita. È solo Dio il
principio e l’origine della vita. Noi tutti siamo figli, anche i genitori sono
figli, non sono dei padri eterni. E il figlio è quello che ha un’origine da un
altro e accetta di essere sé stesso come originato da un altro e non prende il
posto del Padre.
Per
indicare il Padre, viene usata la parola aramaica “abbà” che significa “colui
che dona il figlio” e qui è solo il Padre che dona l’unico Figlio: Cristo Gesù.
Chi usurpa di questi titoli “è un ladro che viene per uccidere e distruggere”
(Gv 10,10).
Il
Padre è Colui che sta nei Cieli dice Gesù. Ora, per i pastori, il termine
“padre” ha senso nel momento in cui partecipassero all’unica paternità di Dio
in relazione alla funzione di sollecitudine paterna spirituale nei confronti di
quanti sono stati loro affidati.
Anche
l’essere guida è in riferimento a uno solo: Cristo Gesù. Egli è Colui che
conduce fuori da tutti gli ovili verso la libertà. Egli è il Cristo, il messia,
il liberatore, il salvatore, il redentore.
vv.
11-12: Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo
Il
v. 11 descrive bene chi si dedica a tale servizio: “servo”, diakonos, corre
sempre quel pericolo di fare da padre, da maestro, da guida. Invece egli è
colui che è chiamato al servizio, ad assolvere le varie funzioni amorevolmente
(cfr. 1Ts 2,7-9.13). Qui ci sta anche un riferimento ai primi diaconi della
chiesa primitiva.
Cristo
venne per servire non per essere servito (Mc 10,45) e cfr. 20,26-28, la
risposta alla richiesta dei figli di Zebedeo, che non compresero che il più
grande è chi ama di più. Il più grande è colui che si fa servo.
chi
invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.
Questa
è la conclusione di Gesù. Essa appare cinque volte nell’AT (Ez 21,31; Pr 29,23;
Gb 22,29; Is 3,17; 10,33; cfr. Lc 2,51-52): preannunzia che nel giudizio
escatologico vi sarà un radicale rovesciamento delle situazioni in cui si
trovano le persone, sulla linea di quanto affermato nelle beatitudini (5,3-10).
Non
bisogna esaltarsi, non bisogna mettersi in mostra. Questi sono atteggiamenti
contrari all’amore. I propri talenti non servono per dominare, anzi distruggerebbero
la propria esistenza insieme a quella degli altri. Diversamente, umiliandosi,
si entra in relazione d’amore, in un servizio reciproco, e lì sarai innalzato in
quanto figlio di Dio.
L’Evangelista
descrive altrove l’umiltà come un tornare bambini prima di essere corrotti dai
grandi (Mt 18,4).
Questi
versetti racchiudono il grande amore di Dio per l’umanità, dove la grandezza
non sta sui seggi di onore ma nel servizio ed essere portatori di comunione con
Cristo, amore vivente.
I
due versetti messi insieme sono una proposta di vita per tutti per vivere la
gloria di Dio.
silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio
sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
vita e la interpella
Gesù
critica ed elogia. Cosa critica alla mia vita e cosa elogia alla mia vita?
Come
vivo la mia fedeltà a Dio e alla sua Parola?
Sento
e vivo l’umiltà come esigenza costituzionale del mio essere cristiano?
Vivo
il servizio con umiltà o come prestigio?
sue stesse parole (Pregare)
non si esalta il mio cuore
né
i miei occhi guardano in alto;
non
vado cercando cose grandi
né
meraviglie più alte di me.
invece resto quieto e sereno:
come
un bimbo svezzato in braccio a sua madre,
come
un bimbo svezzato è in me l’anima mia.
attenda il Signore,
da
ora e per sempre. (Sal 130).
con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
“L’umiltà, è una esigenza, potremmo dire,
costituzionale della moralità del cristiano. Un cristiano superbo è una
contraddizione nei suoi stessi termini. Se vogliamo rinnovare la vita
cristiana, non possiamo tacere la lezione e la pratica dell’umiltà” (san Paolo
VI).
Lectio divina su Mt 23,1-12