Lectio divina su Mt 5,1-12
O Dio, che hai promesso ai poveri e agli umili la
gioia del tuo regno, dona alla tua Chiesa di seguire con fiducia il suo Maestro
e Signore sulla via delle beatitudini evangeliche.
Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello
Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2 Si mise a parlare
e insegnava loro dicendo:
i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
i miti, perché avranno in eredità la terra.
quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
i puri di cuore, perché vedranno Dio.
gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta
di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate,
perché grande è la vostra ricompensa nei cieli». Così, infatti, perseguitarono
i profeti che furono prima di voi.
di Dio
Questa domenica siamo chiamati a riflettere sul
grande discorso della montagna riflettere: le beatitudini, quasi a dire che la
prima bella notizia che il Signore Gesù ci dona è la felicità.
Il vangelo delle Beatitudini costituisce la prima
parte del “discorso della montagna”. Il monte è il luogo della rivelazione, sia
per la trasfigurazione gloriosa di Gesù, sia per la sua parola; il monte ha
inoltre un significato più specifico: esso vuol ricordarci il Sinai, il monte
della promulgazione della legge e della conclusione dell’alleanza. Matteo
propone Gesù come il nuovo Mosè e la sua parola è parola di vita, è legge nuova
(“ma io vi dico..”) che non abolisce l’antica ma la porta a compimento. Tutto
il grande Discorso della Montagna traccia la via del discepolo sulle orme del
Regno. Le Beatitudini ne costituiscono il punto di partenza sorprendente,
“scandaloso”, ma anche consolante. Mentre noi ci chiediamo cosa dobbiamo
fare, Gesù ci mostra in primo luogo ciò che fa Dio, ci invita ad aprire gli
occhi, per contemplare il Regno dei cieli in arrivo e lasciarci sorprendere
dalla sua venuta.
L’espressione letteraria “beato” è anteriore alla
Sacra Scrittura, appartiene già al linguaggio umano per indicare la felicità
umana come facciamo anche ai nostri giorni. Ma è uguale nella Bibbia? È uguale
per Gesù?
No. Non è uguale, perché le beatitudini sono l’identikit
di Gesù Cristo e che Lui indica a quanti vogliono seguirlo. Possiamo leggere le
beatitudini come impegni che ci sono chiesti, ma innanzitutto come elementi del
ritratto spirituale di Gesù Cristo, di Gesù di Nazareth. È una lettura antica
nella tradizione cristiana, perché risale a Origene che dice: “Le
beatitudini sono immagine di Gesù, altrettante icone della figura spirituale di
Gesù”. Quindi, se uno vuole capire chi è Gesù può leggere tutto il Vangelo, può
guardare il suo volto a partire da queste prospettive; quello che Gesù è stato,
viene comunicato al credente perché a sua volta lo viva egli stesso.
Dio ha
preso l’iniziativa di instaurare il suo Regno: prima di agire siamo chiamati
ad accoglierlo, a “stare di fronte a Dio”.
Riflettere sulla Parola (Meditare)
vv. 1-2: Vedendo le folle,
Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro.
Abbiamo in questi versetti un popolo rappresentato
dalla folla e dai discepoli. Il luogo è un monte da cui scende la Parola
divina. La tradizione ha identificato il monte delle beatitudini la collina che
domina su Cafarnao. Il monte di cui parla Matteo però non è un monte materiale
ma spirituale. Il luogo, infatti, ha una valenza più teologica che topografica
come fa Luca, in cui si fa esperienza di Dio. Da questo luogo spirituale, Gesù
si mostra a tutti con il suo parlare e insegnare.
L’accenno alle folle all’inizio (5,1)
e al termine (7,28-29) del discorso fa da cornice all’insegnamento impartito da
Gesù a Israele. Questo può anche indicare una moltitudine potenziale dei
discepoli, ai quali la Chiesa è mandata in missione a portare l’insegnamento di
Gesù (cfr Mt 28,19-29). Infatti, l’insegnamento del discorso non è inteso solo
per il ristretto gruppo dei discepoli, cioè i “dodici” ma a quanti seguono
Cristo.
Il monte delle beatitudini è l’eco e
la pienezza del monte Sinai; è il luogo della rivelazione divina [cfr.
vocazione di Mose sull’Oreb (Es 3,1ss); consegna della Legge sul Sinai (Es 19,1ss);
il sacrificio del Carmelo (1Re 18,20ss); Elia sull’Oreb (1Re 19,1ss); la
trasfigurazione (Mt 17,1-8); l’apparizione del risorto ai discepoli (Mt 28,16).
Su questo monte Gesù si siede (è la
posizione del maestro e la sua parola ha un timbro autorevole) e “aprì la sua
bocca” (traduzione letterale) per insegnare che fa pensare a Dt 8,3: «l’uomo
non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore»; e ancora: «Io susciterò loro un profeta in mezzo
ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io
gli comanderò». Gesù
pronuncia con autorità che gli è propria perché la sua bocca è quella di Dio
che pronuncia solo parole che danno vita.
Il verbo «insegnare» in Matteo è
usato esclusivamente in questo discorso, qui e in 7,29. Il discorso è sapienziale
anche nella formula, che rinvia al Sal 77,2 (cfr At 8,35; 10,34); il verbo
insegnare qui è un termine tecnico per indicare che Gesù è l’interprete
autorizzato della Parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture dell’A.T.
v. 3: Beati
i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
Questa prima beatitudine è l’atteggiamento
fondamentale per accogliere il Regno dei Cieli. C’è in questo versetto un esempio
di come rapportarsi con Dio. Ce lo fa comprendere meglio la Bibbia interconfessionale:
«Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio», indicando così coloro che nella
vita hanno imparato a contare solo su Dio. Inoltre,
“I poveri in spirito” sono le persone che
davanti a Dio si collocano come dei mendicanti, dei bisognosi che sanno di
avere bisogno di Lui, di dipendere interamente da Lui. Possiamo definirlo l’atteggiamento
della fede che non è un fare qualche cosa, ma è la disponibilità a ricevere
qualche cosa; è un mettere come primato della propria vita l’iniziativa di Dio
e non le nostre capacità; non è l’affermazione di noi stessi, nemmeno come
affermazione spirituale, ma è invece la disponibilità a ricevere la grazia e il
dono di Dio che non tratterremo per noi stessi ma lo consegneremo a chi è nel
bisogno. Infatti, beato è colui che non trattiene nulla per sé di quei doni che
Dio ha messo nelle sue mani ma li consegna a coloro che sono nel bisogno, ai
poveri. Chi è il beato per eccellenza? Gesù di Nazaret: Egli non ha trattenuto
nulla per sé ma ha consegnato agli altri, ha consegnato sé stesso agli altri
(cfr. Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Ef 1,3-14). Il vero povero è colui che si fa
povero per amore a questi appartiene il Regno dei cieli.
v. 4: Beati
quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Lo sfondo di questo versetto è Is
61,2-3, dove la missione del profeta è quella di confortare tutti coloro che
piangono in Sion. A questi Gesù promette consolazione (cfr. Lc 2,25), anzi Egli
stesso asciugherà le loro lacrime (cfr. Ap 7,17, che cita Is 25,8; Ap 21,4).
I piangenti, sono anzitutto coloro
che soffrono per gli ostacoli posti dal mondo all’adempimento della volontà
divina di salvezza (cfr. Lc 4,16-22; Is 61,1-6); quindi un atteggiamento che
l’uomo stesso sceglie davanti alla realtà della società e del mondo, dove
Cristo, Dio, la giustizia di Dio e l’amore che viene da Cristo fanno la figura
dei grandi assenti. Non è possibile per il discepolo gioire quando ci sono
ingiustizie, oppressioni, falsità e ipocrisie e quando sembra che Dio sia escluso
dalla convivenza umana e dai valori che la costruiscono.
v. 5: Beati
i miti, perché avranno in eredità la terra.
Vengono
riprese qui le parole del Salmista: «I miti
invece possederanno la terra e godranno di una grande prosperità [pace]»
(Sal 37,11). Il termine ebraico di “miti” è ‘anawìm (con questo termine si vuol riprendere il v.
3). I “miti” di cui si parla non sono i timorosi, ma gli stessi poveri
di spirito che accettano senza amarezza o rancore la loro condizione e trovano
la forza nella serenità e in una coraggiosa sopportazione (cfr. Sal
37,7-9.11.29.40). I miti sono coloro che con pazienza puntano il loro sguardo
oltre l’orizzonte e sono capaci di attendere, sono capaci di perseverare.
Nel linguaggio e nel contesto
evangelico, “la terra” significa la terra promessa. Inoltre, la parola “terra” significa il regno dei cieli, ovvero
il nuovo modo di vivere secondo lo spirito di Dio, che Gesù annuncia e
inaugura.
La terra, che è sempre di Dio, deve essere vissuta
come un dono condiviso e ammini-strato nella giustizia e nella fraternità, dono
di Dio ai popoli, da abitare senza violenza, in mitezza, in pace e ospitalità
reciproca. Questo è l’unico modo per possederla con sicurezza e frutto, nella
pace. Il violento non possiede davvero la terra, perché la sua minaccia ritorna
su di lui e gli nega la sicurezza.
I miti non solo possono “ereditare” la terra, starvi
sicuri senza far violenza, ma sono i soli in grado di trasmettere a loro volta
in eredità la terra ricevuta.
v. 6: Beati
quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
La fame e la sete, nella Bibbia
(Is 55,1-2; Sal 42,2-3), indicano la tendenza a Dio e la nostalgia di lui. I due
verbi in senso metaforico possono esprimere un forte desiderio di Dio e della
sua Parola: «l’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente…» (Sal 42,3);
«O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima
mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal
63,2); «Ecco verranno giorni –dice il Signore – in cui manderò la
fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola
del Signore» (Am 8,11 ).
Il Salmista descrive (Sal 107,5.8-9) come
Dio abbia soddisfatto la fame e la sete degli Israeliti. Matteo ha ampliato la
fonte Q (Lc 6,21) aggiungendo la «sete» (in conformità al Salmo 107) e «della
giustizia» (per chiarire la natura della fame e della sete). La giustizia si
riferisce in primo luogo alla giustizia di Dio, ma anche ai rapporti umani e alla
condotta. In un contesto apocalittico la giustizia si riferisce alla
rivendicazione dei giusti nel giudizio finale.
Nel
Discorso della Montagna fare la giustizia – fare la volontà del Padre (Mt
7,21) – fare queste mie parole (Mt 7,24), designano la stessa realtà,
cioè l’agire umano necessario per entrare nel Regno dei cieli. Tale agire deve
seguire le norme giuste (fare la giustizia), che sono determinate da Dio
(fare la volontà del Padre) e che vengono autorevolmente comunicate da
Gesù (fare queste mie parole). L’ultimo passo del Discorso della
Montagna in cui si parla di «giustizia» è Mt 6,33: «Cercate prima il Regno di
Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta»: si
oppone alla ricerca ansiosa del cibo, della bevanda e del vestito, la
preoccupazione necessaria ed essenziale: il Regno di Dio! Il Regno di Dio
dev’essere il bene più alto, mentre il giusto agire (la giustizia) costituisce
la condizione indispensabile per l’ingresso in quel Regno.
v. 7: Beati
i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Per la Bibbia “misericordioso” è un appellativo
tipicamente divino, la “misericordia” è l’identità propria di Dio. Tutta la
Sacra Scrittura rivela la misericordia di Dio. La stessa alleanza proposta da
Dio è un segno della sua misericordia. Questa “misericordia” attribuita a Dio
comprende il perdono delle mancanze, il perdono dei peccati, che a sua volta desidera – Dio – di
vedere la misericordia praticata dagli uomini.
I misericordiosi sono coloro che, imitando Dio, sanno comprendere e
perdonare il prossimo secondo l’impegno evangelico che troviamo nella preghiera
del Padre nostro (cfr. Mt 6,11-12.14-15). Lo sfondo è Prov 14,21; 17,5 (LXX),
dove la «benedizione» è il premio per la misericordia mostrata ai poveri.
«Siate
misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Quanto più si accoglie
l’amore del Padre, tanto più si ama (cfr. CCC, 2842). La misericordia non è una
dimensione fra le altre, ma è il centro della vita cristiana: non c’è
cristianesimo senza misericordia. Se tutto il nostro cristianesimo non ci porta
alla misericordia, abbiamo sbagliato strada, perché la misericordia è l’unica
vera meta di ogni cammino spirituale. Essa è uno dei frutti più belli della
carità (cfr. CCC, 1829).
v. 8: Beati i puri di
cuore, perché vedranno Dio.
Nella Bibbia il cuore non è solo il “luogo” dei
sentimenti, ma indica le decisioni, la vita. Lì ognuno ritrova sé stesso e la
propria identità, lì ogni persona decide di sé, nel suo rapporto con gli altri,
col mondo e con Dio. Il cuore buono rende buono tutto l’uomo, il cuore cattivo
lo rende cattivo.
L’espressione «cuore puro» non è né
un riferimento alla purità sessuale-rituale né alla sincerità, ma caratterizza
le persone oneste la cui integrità morale si estende al loro essere interiore e
le cui azioni sono coerenti con le intenzioni.
La purezza di cuore è la purezza interiore con cui
la persona prende delle decisioni che sono corrette e non falsate dal suo
interesse o dal suo capriccio o dalla sua superficialità.
Ciò che
corrompe e rende impuri, non sono le cose materiali, ma il peccato; non è ciò
che viene a contatto con l’uomo dal di fuori, ma ciò che dall’interno determina
i comportamenti personali di ciascuno. «Tutto ciò che entra nell’uomo dal di
fuori non può contaminarlo», perché gli entra nello stomaco, non nell’anima.
«Ciò che esce dall’uomo, questo contamina l’uomo. Dal di dentro, infatti,
cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti,
omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia,
superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e
contaminano l’uomo» (Mc 7,18.20-22).
Dalla
dimensione interiore e spirituale dell’uomo, dalla sua anima e dal suo cuore
derivano i desideri e le azioni buone o cattive. Se sono cattive corrompono
tutto l’uomo: infatti è cattivo all’interno, dove ha pensato e desiderato il
male; ed è cattivo all’esterno, dove si comporta male e fa male agli altri.
Così il cuore, centro della persona, qualifica in senso positivo o negativo
tutta la persona.
v. 9: Beati gli operatori di
pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Insieme con quella dei misericordiosi,
questa è l’unica beatitudine che non dice tanto come bisogna “essere” (poveri,
afflitti, miti, puri di cuore), quanto cosa si deve “fare”. Il termine in greco
significa coloro che lavorano per la pace, che “fanno pace”. Non tanto, però,
nel senso che si riconciliano con i propri nemici, quanto nel senso che aiutano
i nemici a riconciliarsi. “Si tratta di persone che amano molto la pace, tanto
da non temere di compromettere la propria pace personale intervenendo nei
conflitti al fine di procurare la pace tra quanti sono divisi” (Dupont)
“I portatori di pace” non sono dunque gli
amanti del quieto vivere ma gli attivi operatori di pace, che agiscono come Dio
stesso, perché Dio è il Dio della pace (Rm 16,20). Il vero «operatore di pace»
è Dio stesso. Per questo quelli che si adoperano per la pace sono chiamati
«figli di Dio»: perché somigliano a Lui, Lo imitano e fanno quello che fa Lui.
Vuol dire che la pace è prima di tutto un dono da accogliere! Di conseguenza la
pace è un compito! Non si tratta, tuttavia, di inventare o creare la pace, ma
di trasmetterla, di lasciar passare la pace di Dio «che sorpassa ogni
intelligenza» (Fil 4,7),
lasciando che custodisca i cuori e i pensieri in Gesù Cristo.
v. 10: Beati i perseguitati per la giustizia, perché di
essi è il regno dei cieli.
“Beati i perseguitati”, cioè coloro
che ricevono sofferenze dall’esterno, dagli altri e che contempla la stessa prospettiva
del regno.
La
beatitudine, si riferisce ai perseguitati per Gesù, per il nome di Gesù, per la
causa del Vangelo. Pensiamo alle prime persecuzioni che si sono scatenate nei
riguardi degli apostoli. Queste sono persecuzioni per causa del Vangelo. L’evangelista,
infatti, riprendendo la quarta beatitudine, dà la motivazione di questa
persecuzione «per la giustizia» che il
versetto seguente completerà meglio: «Beati voi quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per causa mia» (Mt 5,11).
In questa persecuzione possiamo
trovarci anche noi tutte quelle volte che dobbiamo sostenere la dignità di
essere cristiani nell’ambiente del lavoro, tutte quelle volte che dovremmo
sopportare persecuzioni meno gravi, perché annunciamo il nome di Gesù.
In Mt 10,22 leggiamo: «Sarete
odiati da tutti a causa del mio nome»; e in Mt 10,39: «Chi avrà perduto
la sua vita per causa mia, la troverà». Il discepolo però sa che nulla
potrà separarlo dall’amore di Cristo, né la persecuzione, né la prigione, né la
morte (cfr. Rm 8,35).
vv. 11-12: Beati voi quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli.
È la nona beatitudine
già anticipata nell’ottava e si distacca dalle precedenti per la sua lunghezza
e per l’uso della seconda persona plurale («voi»): anch’essa è giunta a Matteo
dalla tradizione (cfr. Lc 6,22-23), ma risale non a Gesù, bensì alla comunità,
la quale l’ha coniata a partire dalla beatitudine da lui riservata agli
afflitti.
La beatitudine è rivolta a coloro che esattamente saranno insultati come Gesù
sulla Croce.
È rivolta direttamente ai
cristiani che soffrono persecuzione a causa della loro fede in Gesù. Anzi, Gesù gli assicura che nell’ora
del processo gli saranno date parola e sapienza per resistere ai persecutori,
che non potranno contraddirlo. In ogni avversità, anche da parte di parenti,
familiari e amici, il cristiano non deve temere nulla. Deve solo continuare a
confidare nel Signore Gesù, accogliendo la sua promessa: “Con la vostra
perseveranza salverete la vostra vita”. Ecco la virtù cristiana per eccellenza:
la perseveranza-pazienza che è la capacità di non disperare, di non lasciarsi
abbattere nelle tribolazioni e nelle difficoltà, di rimanere e durare nel
tempo, che diviene anche capacità di supportare gli altri, di sopportarli e di
sostenerli.
Il versetto richiama alla
perseveranza fino alla fine (cfr. Mt
10,22; 24,13), continuando a vivere nell’amore “fino alla fine”, sull’esempio
di Gesù (Gv 13,1), perché ad
essi è riservata nei cieli una grande ricompensa, che si identifica con la
piena comunione con Dio (cfr. 1Pt 4,13-16) e la partecipazione alla Resurrezione
di Cristo Gesù, il Figlio di Dio.
Ci fermiamo in
silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio
sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
La Parola illumina la
vita e la interpella
Quali sono le beatitudini in cui mi identifico
maggiormente? Quali quelle da cui mi sento ancora lontano/a?
Quale mi invita a crescere, che mi chiede di
provarci, che mi sfida a cambiare?
Trovo piste di conversione per poter incarnare una
o più beatitudini, anche attraverso l’esempio dei Testimoni del nostro tempo?
Ritengo possibile una vita improntata alle
beatitudini?
Rispondi a Dio con le
sue stesse parole (Pregare)
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in
generazione. (Sal 145).
L’incontro con l’infinito di Dio è
impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Lasciamoci
illuminare dalla Parola di Dio e cerchiamo di scoprire nella nostra vita le
beatitudini elencate da Matteo. Cerchiamo di scoprire se la nostra vita è un
dono di Dio che per amore va “consegnata” secondo l’ideale delle Beatitudini.
preso l’iniziativa di instaurare il suo Regno: prima di agire siamo chiamati
ad accoglierlo, a “stare di fronte a Dio”.
vv. 1-2: Vedendo le folle,
Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli.
Si mise a parlare e insegnava loro.
Abbiamo in questi versetti un popolo rappresentato
dalla folla e dai discepoli. Il luogo è un monte da cui scende la Parola
divina. La tradizione ha identificato il monte delle beatitudini la collina che
domina su Cafarnao. Il monte di cui parla Matteo però non è un monte materiale
ma spirituale. Il luogo, infatti, ha una valenza più teologica che topografica
come fa Luca, in cui si fa esperienza di Dio. Da questo luogo spirituale, Gesù
si mostra a tutti con il suo parlare e insegnare.
L’accenno alle folle all’inizio (5,1)
e al termine (7,28-29) del discorso fa da cornice all’insegnamento impartito da
Gesù a Israele. Questo può anche indicare una moltitudine potenziale dei
discepoli, ai quali la Chiesa è mandata in missione a portare l’insegnamento di
Gesù (cfr Mt 28,19-29). Infatti, l’insegnamento del discorso non è inteso solo
per il ristretto gruppo dei discepoli, cioè i “dodici” ma a quanti seguono
Cristo.
Il monte delle beatitudini è l’eco e
la pienezza del monte Sinai; è il luogo della rivelazione divina [cfr.
vocazione di Mose sull’Oreb (Es 3,1ss); consegna della Legge sul Sinai (Es 19,1ss);
il sacrificio del Carmelo (1Re 18,20ss); Elia sull’Oreb (1Re 19,1ss); la
trasfigurazione (Mt 17,1-8); l’apparizione del risorto ai discepoli (Mt 28,16).
Su questo monte Gesù si siede (è la
posizione del maestro e la sua parola ha un timbro autorevole) e “aprì la sua
bocca” (traduzione letterale) per insegnare che fa pensare a Dt 8,3: «l’uomo
non vive soltanto di pane, ma di quanto esce dalla bocca del Signore»; e ancora: «Io susciterò loro un profeta in mezzo
ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io
gli comanderò». Gesù
pronuncia con autorità che gli è propria perché la sua bocca è quella di Dio
che pronuncia solo parole che danno vita.
usato esclusivamente in questo discorso, qui e in 7,29. Il discorso è sapienziale
anche nella formula, che rinvia al Sal 77,2 (cfr At 8,35; 10,34); il verbo
insegnare qui è un termine tecnico per indicare che Gesù è l’interprete
autorizzato della Parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture dell’A.T.
v. 3: Beati
i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
fondamentale per accogliere il Regno dei Cieli. C’è in questo versetto un esempio
di come rapportarsi con Dio. Ce lo fa comprendere meglio la Bibbia interconfessionale:
«Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio», indicando così coloro che nella
vita hanno imparato a contare solo su Dio. Inoltre,
“I poveri in spirito” sono le persone che
davanti a Dio si collocano come dei mendicanti, dei bisognosi che sanno di
avere bisogno di Lui, di dipendere interamente da Lui. Possiamo definirlo l’atteggiamento
della fede che non è un fare qualche cosa, ma è la disponibilità a ricevere
qualche cosa; è un mettere come primato della propria vita l’iniziativa di Dio
e non le nostre capacità; non è l’affermazione di noi stessi, nemmeno come
affermazione spirituale, ma è invece la disponibilità a ricevere la grazia e il
dono di Dio che non tratterremo per noi stessi ma lo consegneremo a chi è nel
bisogno. Infatti, beato è colui che non trattiene nulla per sé di quei doni che
Dio ha messo nelle sue mani ma li consegna a coloro che sono nel bisogno, ai
poveri. Chi è il beato per eccellenza? Gesù di Nazaret: Egli non ha trattenuto
nulla per sé ma ha consegnato agli altri, ha consegnato sé stesso agli altri
(cfr. Fil 2,6-11; Col 1,15-20; Ef 1,3-14). Il vero povero è colui che si fa
povero per amore a questi appartiene il Regno dei cieli.
v. 4: Beati
quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Lo sfondo di questo versetto è Is
61,2-3, dove la missione del profeta è quella di confortare tutti coloro che
piangono in Sion. A questi Gesù promette consolazione (cfr. Lc 2,25), anzi Egli
stesso asciugherà le loro lacrime (cfr. Ap 7,17, che cita Is 25,8; Ap 21,4).
I piangenti, sono anzitutto coloro
che soffrono per gli ostacoli posti dal mondo all’adempimento della volontà
divina di salvezza (cfr. Lc 4,16-22; Is 61,1-6); quindi un atteggiamento che
l’uomo stesso sceglie davanti alla realtà della società e del mondo, dove
Cristo, Dio, la giustizia di Dio e l’amore che viene da Cristo fanno la figura
dei grandi assenti. Non è possibile per il discepolo gioire quando ci sono
ingiustizie, oppressioni, falsità e ipocrisie e quando sembra che Dio sia escluso
dalla convivenza umana e dai valori che la costruiscono.
i miti, perché avranno in eredità la terra.
riprese qui le parole del Salmista: «I miti
invece possederanno la terra e godranno di una grande prosperità [pace]»
(Sal 37,11). Il termine ebraico di “miti” è ‘anawìm (con questo termine si vuol riprendere il v.
3). I “miti” di cui si parla non sono i timorosi, ma gli stessi poveri
di spirito che accettano senza amarezza o rancore la loro condizione e trovano
la forza nella serenità e in una coraggiosa sopportazione (cfr. Sal
37,7-9.11.29.40). I miti sono coloro che con pazienza puntano il loro sguardo
oltre l’orizzonte e sono capaci di attendere, sono capaci di perseverare.
evangelico, “la terra” significa la terra promessa. Inoltre, la parola “terra” significa il regno dei cieli, ovvero
il nuovo modo di vivere secondo lo spirito di Dio, che Gesù annuncia e
inaugura.
come un dono condiviso e ammini-strato nella giustizia e nella fraternità, dono
di Dio ai popoli, da abitare senza violenza, in mitezza, in pace e ospitalità
reciproca. Questo è l’unico modo per possederla con sicurezza e frutto, nella
pace. Il violento non possiede davvero la terra, perché la sua minaccia ritorna
su di lui e gli nega la sicurezza.
I miti non solo possono “ereditare” la terra, starvi
sicuri senza far violenza, ma sono i soli in grado di trasmettere a loro volta
in eredità la terra ricevuta.
v. 6: Beati
quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
(Is 55,1-2; Sal 42,2-3), indicano la tendenza a Dio e la nostalgia di lui. I due
verbi in senso metaforico possono esprimere un forte desiderio di Dio e della
sua Parola: «l’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente…» (Sal 42,3);
«O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima
mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal
63,2); «Ecco verranno giorni –dice il Signore – in cui manderò la
fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola
del Signore» (Am 8,11 ).
Dio abbia soddisfatto la fame e la sete degli Israeliti. Matteo ha ampliato la
fonte Q (Lc 6,21) aggiungendo la «sete» (in conformità al Salmo 107) e «della
giustizia» (per chiarire la natura della fame e della sete). La giustizia si
riferisce in primo luogo alla giustizia di Dio, ma anche ai rapporti umani e alla
condotta. In un contesto apocalittico la giustizia si riferisce alla
rivendicazione dei giusti nel giudizio finale.
Nel
Discorso della Montagna fare la giustizia – fare la volontà del Padre (Mt
7,21) – fare queste mie parole (Mt 7,24), designano la stessa realtà,
cioè l’agire umano necessario per entrare nel Regno dei cieli. Tale agire deve
seguire le norme giuste (fare la giustizia), che sono determinate da Dio
(fare la volontà del Padre) e che vengono autorevolmente comunicate da
Gesù (fare queste mie parole). L’ultimo passo del Discorso della
Montagna in cui si parla di «giustizia» è Mt 6,33: «Cercate prima il Regno di
Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta»: si
oppone alla ricerca ansiosa del cibo, della bevanda e del vestito, la
preoccupazione necessaria ed essenziale: il Regno di Dio! Il Regno di Dio
dev’essere il bene più alto, mentre il giusto agire (la giustizia) costituisce
la condizione indispensabile per l’ingresso in quel Regno.
v. 7: Beati
i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
tipicamente divino, la “misericordia” è l’identità propria di Dio. Tutta la
Sacra Scrittura rivela la misericordia di Dio. La stessa alleanza proposta da
Dio è un segno della sua misericordia. Questa “misericordia” attribuita a Dio
comprende il perdono delle mancanze, il perdono dei peccati, che a sua volta desidera – Dio – di
vedere la misericordia praticata dagli uomini.
I misericordiosi sono coloro che, imitando Dio, sanno comprendere e
perdonare il prossimo secondo l’impegno evangelico che troviamo nella preghiera
del Padre nostro (cfr. Mt 6,11-12.14-15). Lo sfondo è Prov 14,21; 17,5 (LXX),
dove la «benedizione» è il premio per la misericordia mostrata ai poveri.
misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36). Quanto più si accoglie
l’amore del Padre, tanto più si ama (cfr. CCC, 2842). La misericordia non è una
dimensione fra le altre, ma è il centro della vita cristiana: non c’è
cristianesimo senza misericordia. Se tutto il nostro cristianesimo non ci porta
alla misericordia, abbiamo sbagliato strada, perché la misericordia è l’unica
vera meta di ogni cammino spirituale. Essa è uno dei frutti più belli della
carità (cfr. CCC, 1829).
cuore, perché vedranno Dio.
Nella Bibbia il cuore non è solo il “luogo” dei
sentimenti, ma indica le decisioni, la vita. Lì ognuno ritrova sé stesso e la
propria identità, lì ogni persona decide di sé, nel suo rapporto con gli altri,
col mondo e con Dio. Il cuore buono rende buono tutto l’uomo, il cuore cattivo
lo rende cattivo.
L’espressione «cuore puro» non è né
un riferimento alla purità sessuale-rituale né alla sincerità, ma caratterizza
le persone oneste la cui integrità morale si estende al loro essere interiore e
le cui azioni sono coerenti con le intenzioni.
La purezza di cuore è la purezza interiore con cui
la persona prende delle decisioni che sono corrette e non falsate dal suo
interesse o dal suo capriccio o dalla sua superficialità.
Ciò che
corrompe e rende impuri, non sono le cose materiali, ma il peccato; non è ciò
che viene a contatto con l’uomo dal di fuori, ma ciò che dall’interno determina
i comportamenti personali di ciascuno. «Tutto ciò che entra nell’uomo dal di
fuori non può contaminarlo», perché gli entra nello stomaco, non nell’anima.
«Ciò che esce dall’uomo, questo contamina l’uomo. Dal di dentro, infatti,
cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti,
omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia,
superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e
contaminano l’uomo» (Mc 7,18.20-22).
Dalla
dimensione interiore e spirituale dell’uomo, dalla sua anima e dal suo cuore
derivano i desideri e le azioni buone o cattive. Se sono cattive corrompono
tutto l’uomo: infatti è cattivo all’interno, dove ha pensato e desiderato il
male; ed è cattivo all’esterno, dove si comporta male e fa male agli altri.
Così il cuore, centro della persona, qualifica in senso positivo o negativo
tutta la persona.
v. 9: Beati gli operatori di
pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Insieme con quella dei misericordiosi,
questa è l’unica beatitudine che non dice tanto come bisogna “essere” (poveri,
afflitti, miti, puri di cuore), quanto cosa si deve “fare”. Il termine in greco
significa coloro che lavorano per la pace, che “fanno pace”. Non tanto, però,
nel senso che si riconciliano con i propri nemici, quanto nel senso che aiutano
i nemici a riconciliarsi. “Si tratta di persone che amano molto la pace, tanto
da non temere di compromettere la propria pace personale intervenendo nei
conflitti al fine di procurare la pace tra quanti sono divisi” (Dupont)
“I portatori di pace” non sono dunque gli
amanti del quieto vivere ma gli attivi operatori di pace, che agiscono come Dio
stesso, perché Dio è il Dio della pace (Rm 16,20). Il vero «operatore di pace»
è Dio stesso. Per questo quelli che si adoperano per la pace sono chiamati
«figli di Dio»: perché somigliano a Lui, Lo imitano e fanno quello che fa Lui.
Vuol dire che la pace è prima di tutto un dono da accogliere! Di conseguenza la
pace è un compito! Non si tratta, tuttavia, di inventare o creare la pace, ma
di trasmetterla, di lasciar passare la pace di Dio «che sorpassa ogni
intelligenza» (Fil 4,7),
lasciando che custodisca i cuori e i pensieri in Gesù Cristo.
v. 10: Beati i perseguitati per la giustizia, perché di
essi è il regno dei cieli.
“Beati i perseguitati”, cioè coloro
che ricevono sofferenze dall’esterno, dagli altri e che contempla la stessa prospettiva
del regno.
La
beatitudine, si riferisce ai perseguitati per Gesù, per il nome di Gesù, per la
causa del Vangelo. Pensiamo alle prime persecuzioni che si sono scatenate nei
riguardi degli apostoli. Queste sono persecuzioni per causa del Vangelo. L’evangelista,
infatti, riprendendo la quarta beatitudine, dà la motivazione di questa
persecuzione «per la giustizia» che il
versetto seguente completerà meglio: «Beati voi quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per causa mia» (Mt 5,11).
trovarci anche noi tutte quelle volte che dobbiamo sostenere la dignità di
essere cristiani nell’ambiente del lavoro, tutte quelle volte che dovremmo
sopportare persecuzioni meno gravi, perché annunciamo il nome di Gesù.
In Mt 10,22 leggiamo: «Sarete
odiati da tutti a causa del mio nome»; e in Mt 10,39: «Chi avrà perduto
la sua vita per causa mia, la troverà». Il discepolo però sa che nulla
potrà separarlo dall’amore di Cristo, né la persecuzione, né la prigione, né la
morte (cfr. Rm 8,35).
vv. 11-12: Beati voi quando vi
insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro
di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra
ricompensa nei cieli.
È la nona beatitudine
già anticipata nell’ottava e si distacca dalle precedenti per la sua lunghezza
e per l’uso della seconda persona plurale («voi»): anch’essa è giunta a Matteo
dalla tradizione (cfr. Lc 6,22-23), ma risale non a Gesù, bensì alla comunità,
la quale l’ha coniata a partire dalla beatitudine da lui riservata agli
afflitti.
La beatitudine è rivolta a coloro che esattamente saranno insultati come Gesù
sulla Croce.
È rivolta direttamente ai
cristiani che soffrono persecuzione a causa della loro fede in Gesù. Anzi, Gesù gli assicura che nell’ora
del processo gli saranno date parola e sapienza per resistere ai persecutori,
che non potranno contraddirlo. In ogni avversità, anche da parte di parenti,
familiari e amici, il cristiano non deve temere nulla. Deve solo continuare a
confidare nel Signore Gesù, accogliendo la sua promessa: “Con la vostra
perseveranza salverete la vostra vita”. Ecco la virtù cristiana per eccellenza:
la perseveranza-pazienza che è la capacità di non disperare, di non lasciarsi
abbattere nelle tribolazioni e nelle difficoltà, di rimanere e durare nel
tempo, che diviene anche capacità di supportare gli altri, di sopportarli e di
sostenerli.
Il versetto richiama alla
perseveranza fino alla fine (cfr. Mt
10,22; 24,13), continuando a vivere nell’amore “fino alla fine”, sull’esempio
di Gesù (Gv 13,1), perché ad
essi è riservata nei cieli una grande ricompensa, che si identifica con la
piena comunione con Dio (cfr. 1Pt 4,13-16) e la partecipazione alla Resurrezione
di Cristo Gesù, il Figlio di Dio.
silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio
sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
vita e la interpella
Quali sono le beatitudini in cui mi identifico
maggiormente? Quali quelle da cui mi sento ancora lontano/a?
Quale mi invita a crescere, che mi chiede di
provarci, che mi sfida a cambiare?
Trovo piste di conversione per poter incarnare una
o più beatitudini, anche attraverso l’esempio dei Testimoni del nostro tempo?
Ritengo possibile una vita improntata alle
beatitudini?
sue stesse parole (Pregare)
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in
generazione. (Sal 145).
L’incontro con l’infinito di Dio è
impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Lasciamoci
illuminare dalla Parola di Dio e cerchiamo di scoprire nella nostra vita le
beatitudini elencate da Matteo. Cerchiamo di scoprire se la nostra vita è un
dono di Dio che per amore va “consegnata” secondo l’ideale delle Beatitudini.