Invocare
Egli è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
La pericope matteana dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme corrisponde a Mc 11,1-11. L’evangelista Matteo ha ampliato la narrazione con varie inserzioni mettendone in luce importanza e significato.
Il brano di questa celebrazione liturgica, raccoglie solamente 11 versetti.
L’ingresso gioioso di Gesù a Gerusalemme è una scena messianica che ricalca le cerimonie di investitura regale molto comuni nell’antico oriente e anche qualche volta nei libri della bibbia (cfr. 1 Re 1,33-35). Gesù è un re che viene non per dominare, ma per servire e dare la sua vita a redenzione dell’umanità.
Così la liturgia, dopo la scena gioiosa della intronizzazione regale di Gesù, passa immediatamente al racconto della sua passione.
Il brano è collocato tra la «salita a Gerusalemme», con penultima tappa a Gerico (19,1-20,34), ed il «ministero messianico a Gerusalemme» (cf 21,1-25,46).
Il nostro brano fa da cerniera, introducendo all’ultima parte della Vita del Signore prima della Croce e della Resurrezione.
L’azione di questo episodio, che è la continuazione di quella del brano precedente, è collocata da Matteo in una sola giornata, la descrizione della quale termina in 21,17 con la cacciata dei venditori dal Tempio.
L’entrata di Gesù nella città santa assume per esplicita iniziativa del Maestro, il carattere di una pubblica manifestazione della sua regalità messianica, finora tenuta volutamente in penombra; ma si tratta di una regalità ammantata non di sfarzo e di potenza, ma di povertà e mansuetudine.
vv. 1-3: Quando furono vicini a Gerusalemme e giunsero presso Bètfage, verso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due discepoli, dicendo loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito troverete un’asina, legata, e con essa un puledro. Slegateli e conduceteli da me».
Questi primi versetti vengono collocati in area ben definita, precisa, geografica, storica. Il movimento è tipico del pellegrino che sale al Tempio per la Pasqua cantando le lodi dell’Altissimo con la fatica del viaggio che si colorava di gioia nel vedere già le porte della città. “Là salgono insieme le tribù del Signore, per lodare il nome del Signore, là sono posti i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide. […] Domandate pace per Gerusalemme” (cfr. Sl 122).
Matteo mette in rilievo il fatto che Gesù sta andando a Gerusalemme, dove lo attende la croce.
L’entrata di Gesù in Gerusalemme è presentata da Matteo con una grande precisione geografica. Egli viene dalla Galilea attraverso la Perea ed entra dalla porta orientale. Così evita di passare attraverso la Samaria. La strada che sale da Gerico a Gerusalemme, prima di giungere al monte degli Ulivi, devia a sinistra e passa per Betfage e poi per Betania.
Matteo osserva, come fa Marco, che Betfage si trova presso il monte degli Ulivi, quindi proprio là dove si pensava che JHWH sarebbe apparso per liberare Gerusalemme dai suoi nemici (cfr. Zc 14,4) e dove i rabbini collocavano la venuta del Messia.
Gesù invia nel villaggio due discepoli con un compito ben preciso: “requisire” un’asina e il suo puledro, che dovranno servire a Gesù per il suo ingresso in Gerusalemme. Il fatto che Gesù sappia esattamente dove si trovino l’asina e il puledro e il modo imperativo con egli cui ordina ai suoi discepoli di andarli a prendere, vogliono mettere in risalto l’autorità del Messia. Infatti, se fossero dei semplici pellegrini andrebbero a piedi. Ciò vuol dimostrare che l’ingresso di Gesù non è un ingresso ordinario.
E se qualcuno vi dirà qualcosa, rispondete: «Il Signore ne ha bisogno, ma li rimanderà indietro subito
Fino a questo momento Gesù non si era mai attribuito il titolo di Kyrios, Signore. Ora è giunta l’ora di farlo e la sua figura si illumina d’un tassello nuovo: Gesù è il Signore, riconosciuto tale nel giorno del giudizio.
vv. 4-6: Ora questo avvenne perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta: Dite alla figlia di Sion: Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma. I discepoli andarono e fecero quello che aveva ordinato loro Gesù.
L’evangelista osserva che ciò è avvenuto perché si adempisse un oracolo profetico riferendosi a Zc 9,9, che Matteo, diversamente dagli altri sinottici, ma in sintonia con Giovanni (12,15), riporta per esteso. Qui troviamo la motivazione per cui si ha due animali e non uno: il profeta parla in parallelismo, Matteo cita l’adempimento letterale della profezia.
Nel citare il profeta Zaccaria, Matteo omette l’invito all’esultanza e lo sostituisce con un’espressione tratta da Isaia: «Dite alla figlia di Sion» (cfr. Is 62,11). Per lui l’esultanza è fuori luogo perché Gerusalemme si sarebbe autoesclusa dalla salvezza e Gesù più avanti ne predirà la condanna (cfr. 23,37-39). Qui Gesù accorda un “segno” a Israele e a Gerusalemme, mentre prima lo aveva rifiutato due volte (12,38ss; 16,14). Prima aveva annunciato solo il segno di Giona, ora da un segno per i credenti.
Matteo tralascia anche gli aggettivi «giusto e salvatore», connessi con l’idea di vittoria, per concentrare l’attenzione sull’attributo della mitezza (praüs, mansueto): egli vede questa caratteristica raffigurata plasticamente nel fatto che Gesù non entra a Gerusalemme su un focoso destriero, bensì su un’umile animale che, pur essendo una cavalcatura principesca (cfr. Gdc 10,4; 12,14), aveva connotati pacifici (cfr. Zc 9,10).
vv. 8-9: La folla, numerosissima, stese i propri mantelli sulla strada, mentre altri tagliavano rami dagli alberi e li stendevano sulla strada.
La folla è sempre annotata dall’evangelista Matteo e dimostra l’intenzione di dare la massima visibilità e solennità alla scena.
La folla viene descritta mentre stendeva i mantelli e rami tagliati dagli alberi (secondo Giovanni sono rami di palme). Lo stendere i mantelli a terra è un chiaro segno di riconoscimento della regalità: così risulta anche dopo l’unzione di Ieu a re d’Israele in 2 Re 9,13; l’uso delle fronde invece richiama sia i riti che si compivano nella festa delle capanne (Lv 23,40), sia quelli compiuti da Giuda Maccabeo per la dedicazione del tempio dopo la profanazione che ne era stata fatta dai re siriani (2Mac 10,7). L’evangelista allude anche al Salmo 118,19 («Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell’altare») che veniva proclamato nelle feste delle Capanne e della Dedicazione. I pellegrini galilei che accompagnano Gesù si ispirano a queste parole liturgiche per acclamarlo come il Messia. Se queste allusioni ai testi biblici sono intenzionali, vi sarebbe qui un riferimento ai temi della messianicità di Gesù, del nuovo esodo e della purificazione del tempio: quest’ultimo motivo sarà poi ripreso nella scena successiva.
La folla che lo precedeva e quella che lo seguiva, gridava: «Osanna al figlio di Davide!
Ora, questa folla, grida il suo “Osanna”, espressione ricavata dal Sal 118,25a.26a. Esse sono usate dai sacerdoti per rivolgere il loro saluto a un personaggio, probabilmente il re che, dopo aver ottenuto una grande vittoria, sale al tempio per ringraziare JHWH. Il termine «osanna» (hoshiah-nna, deh! salvaci!) ha il senso di «Evviva!». I ciechi lo hanno invocato così prima di quelli che vedevano (9,27; 20,30s.); la donna cananea lo ha riconosciuto tale prima dei figli d’israele, prima delle pecore perdute della casa d’israele (15,22).
Ora, l’evangelista, con l’aggiunta dell’appellativo «Figlio di David», dà il titolo inconfondibile del Messia, tralasciando il riferimento marciano al regno davidico che viene (Mc 11,10).
Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!.
Con questo grido venivano accolti i pellegrini che arrivavano in città. Ma Gesù “pellegrino onorario” sull’umile cavalcatura è benedetto sopra tutti.
Questa è l’ora che per la prima volta risuona al Signore, che la comunità cristiana, oggi, eleva nel Sanctus della Celebrazione Eucaristica.
vv. 10-11: Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: «Chi è costui?». E la folla rispondeva: «Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea».
In questi versetti, l’evangelista descrive il turbamento della città che in qualche modo rievoca quello che aveva avuto luogo all’arrivo dei magi (Mt 2,3). Come allora i gerosolimitani restano passivi ed estranei all’avvenimento messianico.
La domanda «Chi è costui?», esprime il loro atteggiamento sospettoso; sono quasi infastiditi per tanto chiasso. Essi non riescono a cogliere i segni dei tempi. Ancor prima l’avevano acclamato come il Messia. Ora come profeta proveniente da Nazaret, in Galilea.
Il termine «profeta», pur non essendo espressamente messianico, si rifà anch’esso alle attese escatologiche di Israele (cfr. Dt 18,15).
Per gli abitanti di Gerusalemme l’origine di Gesù è in quell’insignificante piccolo villaggio di Nazaret, in Galilea. Di quanto si può dire di lui sono solo a dei semplici dati anagrafici (cfr. Mt 13,55-56; Mc 6,3-4). Però, il Messia salutato come Figlio di David non è altri che il “profeta di nazaret”, davanti al quale Gerusalemme deve prendere la sua decisione.
Anche noi siamo dinanzi a questa Parola, non con un semplice ascolto, ma per cogliere quei tratti salvifici del Messia, di Cristo Gesù.
Tratti che certamente dobbiamo riconoscere in chi non ha voce, del disabile, dell’anziano, dello straniero, rispondendo ai loro bisogni e non imponendo un aiuto a modo nostro.
Riconoscere Gesù come Messia non significa fare il doppio gioco come i Gerosolomitani, ma accoglierlo nella propria vita e salire con Lui, sulla croce.
Riconoscere i tratti salvifici significa conversione, cambiare modo di vivere, indirizzando la vita alla sobrietà, accontentandoci di quel che abbiamo in comunione con i poveri della terra, senza peccare di protagonismo anche a scopo benefico.
Diversamente, ci comporteremo dicendo ancora oggi: chi è costui?
Entriamo anche noi a Gerusalemme con Gesù, perché non c’è vera gloria, non c’è risurrezione, se non entriamo nella passione e non passiamo attraverso la croce.