Invocare
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Leggere
Al di la di un travaglio, l’evento può essere considerato come una testimonianza molto viva ed autentica del Gesù della storia e del suo costante atteggiamento verso peccatori ed emarginati.
Il brano pone l’accento su un aspetto decisivo della realtà della chiesa e della nostra vita: Gesù sceglie, per rivelare la misericordia del Padre, una donna adultera.
L’infedeltà e l’adulterio sono tradizionalmente il peccato fondamentale dell’abbandono di Dio. Il rapporto tra Dio e il suo popolo, è un rapporto di matrimonio, un rapporto di alleanza, quindi di fedeltà; e rompere questo rapporto significa peccato di adulterio.
Il racconto comincia la sera, dopo una giornata di insegnamento nel tempio: ciascuno tornò a casa sua (Gv 7,53) e Gesù raggiunse il monte degli Ulivi, come era solito fare, secondo Luca (22,29). Di buon mattino è di nuovo nel tempio e insegna al popolo (cfr Lc 21,37).
Il contesto originario è sconosciuto, ma sembra che qui sia presupposto il racconto sinottico della settimana di passione, stando al quale Gesù passava i giorni a Gerusalemme intento a insegnare ma lasciava la città ogni notte per una maggiore sicurezza (cfr. Mc 11,11).
Il brano stesso si fa incontro tra la miseria dell’uomo e colui che è l’Amore. Incontro che è icona dell’alleanza d’amore continuamente spezzata per l’infedeltà dell’uomo e continuamente ricamata per la fedeltà di Dio.
-Silenzio meditativo perché la Parola risuoni nella nostra vita.
Meditare
Gesù si ritirava, su questo monte, di notte per pregare (Cfr. Lc 21,37-38; Gv 18,1).
L’inizio del versetto rievoca ciò che sarà la sera dell’ultima cena, quando Gesù darà il cuore per il misero. Tommaso d’Aquino commenta così: «si avviò verso il monte degli Ulivi, dove era Betania. E questo ha un significato mistico: poiché, come nota Agostino, dove mai sarebbe stato conveniente che Cristo insegnasse e mostrasse la sua misericordia, se non sul monte degli Ulivi, monte dell’unzione e del crisma? L’ulivo è simbolo della misericordia: in greco infatti “élaion” suona come il termine “éleos”. E nel Vangelo [Lc 10,34], a proposito del samaritano, si legge che versò sulle piaghe olio e vino, simboli della misericordia … e della severità del giudizio» (In Jo. ev. exp, VIII).
“al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui”. Recarsi al tempio di buon mattino era una abitudine di Gesù (cfr. Mc 1,35). Questo riferimento a “tutto il popolo” è espressione che rimanda a tutto il popolo di Israele, quando si pone in ascolto della Parola di Dio: “Neemia, che era il governatore, Esdra sacerdote e scriba e i leviti che ammaestravano il popolo dissero a tutto il popolo: «Questo giorno è consacrato al Signore vostro Dio; non fate lutto e non piangete!». Perché tutto il popolo piangeva, mentre ascoltava le parole della legge” (Nee 8:9).
“Ed egli sedette e si mise a insegnare loro”. Gesù assume la posizione del Maestro: “sedette”. La sua parola è una parola che intende “ammaestrare”, “istruire” (edidasken). Il suo è un insegnamento quotidiano (Lc 19,47; 20,1; 21,37). Egli parla del Regno di Dio che lui desidera veder instaurarsi in Israele.
In questi versetti abbiamo un parallelo con Lc 21,37-38: “Durante il giorno insegnava nel tempio; la notte, usciva e pernottava all’aperto sul monte detto degli Ulivi. E tutto il popolo di buon mattino andava da lui nel tempio per ascoltarlo”.
“Gesù siede sulla cattedra come il Mosè più grande, che estende l’Alleanza a tutti i popoli” (Benedetto XVI). È Lui il nostro vero e unico Maestro! Siamo, pertanto, chiamati a seguire il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, che esprime la verità del suo insegnamento attraverso la fedeltà alla volontà del Padre, attraverso il dono di se stesso.
v. 3: In messo al popolo, troviamo dei personaggi che avanzano con pretesa: “gli scribi e i farisei”. Questi rappresentano l’uomo nella sua ricerca di giustificazione di se stesso dinanzi a Dio e agli altri. Ma questa ricerca rischia di operare divisione, spaccatura, durezza, intransigenza perché è rifiuto costante di quel limite morale che comporta un’esperienza di morte nel cuore dell’uomo.
Gli scribi e i farisei “condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo”. La donna è posta nel mezzo perché sia ben visibile a tutti. È atteggiamento dell’interrogatorio giudiziale (cfr At 4,7). Mostrano in questo modo la loro poca sensibilità verso i loro simili: la donna, anche se colta in flagrante adulterio, ai loro occhi, doveva restare pur sempre una persona e invece sembra un oggetto. È da notare che solo lei viene condotta in giudizio mentre la Legge prevede sia l’adultera che l’uomo, che pecca con lei, devono essere lapidati. Solo la donna, dunque, viene posta nel mezzo per essere studiata e scrutata, quasi fosse una cavia e tale deve essere, visto che il suo peccato è solo un pretesto per porre in fallo Gesù. Nessun rispetto per lei, per la sua dignità, per la sua storia personale, come non ve ne era nella Legge che prevedeva la condanna a morte solo per la donna che tradiva e non per l’uomo infedele.
vv. 4-5: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. In queste parole ci sta il doppio gioco del maligno che non si completerà (Cfr. Mt 22,15-22).
I farisei, da Gesù già rimproverati in altre simili occasioni, avevano dimenticato il monito loro rivolto: “Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13).
Scribi e farisei sono i custodi della legge, dovrebbero amare la legge, e dovrebbero cercare la legge. In realtà, in questo caso, si servono della legge per condannare e accusare Gesù; e si servono della donna diventata ormai uno strumento nelle loro mani, così come la legge.
Il cristiano invece è colui che scava un nuovo “in mezzo” per trovare il cuore della Legge, ma non per condannare ma per amare.
v. 6: “Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra”. Gesù tace, non parla, compie un gesto: si china e si mise a scrivere col dito per terra, gesto che certamente ha un significato misterioso. Il verbo utilizzato è “kategrafen” significa “disegnare, scrivere, tracciare segni”, ma anche “mettere per scritto un’accusa”.
Ci sta qui un richiamo a Ger 17,13: “O speranza d’Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva”, quasi a dire come il peccatore, nella sua malizia, “si vota alla polvere”.
Gesù che si mette a scrivere nella polvere, compie un gesto che è un invito a riconoscersi peccatori, perché il peccato è la condizione non semplicemente della donna che è stata buttata là in mezzo, ma è la condizione di tutto Israele, di tutto il popolo: è la nostra condizione. I profeti ne hanno parlato. In Os 2, Israele è presentato come una sposa adultera. In Ez 16 riprende questo tema con una durezza incredibile. Quello è Israele; ma quello siamo noi, il popolo del Signore. Quelle persone, dunque, non sono innocenti di fronte a una persona colpevole, ma sono partecipi della medesima colpa, del peccato e della lontananza da Dio.
Nel gesto del dito, una simbologia dello Spirito Santo, cogliamo l’abbassarsi di Dio sulla condizione umana e riscrive con compassione con il “dito di Dio”, tutto quello che il diavolo per invidia ha falsato nelle pagine dell’anima in quell’Adamah descritto dalla Genesi (cfr Gen 2,7).
v. 7: “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. È la risposta lapidaria della saggezza e della misericordia di Gesù. Davanti all’insistenza degli accusatori, Gesù li pone di fronte alla loro coscienza, li invita a scandagliarla perché si rendano conto. Chi è il solo giudice del cuore dell’uomo. Li invita a guardare se stessi, ma a guardarsi di fronte a Dio. Se sono veri cercatori di Dio, non possono non ammettere di aver peccato e quindi di aver tradito anch’essi. Se tutti siamo peccatori (Cfr. Rm 3,9ss; 5,12) e tale è la condizione dell’uomo, come può un peccatore infierire contro chi è stato vittima della stessa debolezza umana?
Adulterare la Legge è farla apparire con un’essenza diversa da quella dell’amore: “Il primo e il più importante dei comandamenti è amerai il Signore Dio tuo […] e il prossimo tuo come te stesso” (cfr. Mt 22,36-39). E viene fuori una affermazione fondamentale per la Scrittura e per il Nuovo Testamento; l’affermazione della colpevolezza di tutti gli uomini davanti a Dio (cfr. Rm 3, 9), che vuole dire: davanti agli altri possiamo anche sentirci innocenti – questi scribi e farisei possono sentirsi innocenti; loro, di fronte ad una donna adultera, non hanno commesso nessun adulterio; ma se invece di guardare la donna si collocassero davanti a Dio, si renderanno conto che anche loro sono in fondo in una condizione simile.
v. 8: “E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra”. È un continuare a saggiare i nostri cuori, a scrutarli fino in fondo. Nel libro del profeta Isaia troviamo scritto: Come mai è divenuta una prostituta la città fedele? (Is 1,21). Non era stato tradito anche il Signore e aveva mostrato attraverso la vita e gli oracoli dei profeti il suo cuore di marito tradito ma disposto a perdonare la sposa infedele? Adulterio vuol dire “andare da un altro”; che sia un idolo o il nostro io, quando poniamo al centro della nostra vita un altro che non sia Dio commettiamo tutti un adulterio verso di Lui. Gesù continua a scrivere per terra. Se il suolo su cui scrive è fatto di terra, sabbia o polvere, e se Gesù, come pensavano i Padri della Chiesa, stava scrivendo i loro peccati, un po’ di vento avrà cancellato quello scritto, proprio come Dio cancella le nostre colpe dalla sua memoria.
v. 9: “Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani”. I farisei e gli scribi, disorientati e disarmati dalla sapienza divina, non possono fare altro che allontanarsi, cominciando «dai più anziani»: questo particolare sembra ispirarsi alla storia di Susanna e dei «due anziani pieni di perverse intenzioni» (Dan 13,1ss).
Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Ci sono solo due posti: Gesù è il giudice e l’adultera è l’imputata; ma Gesù è la misericordia, e l’adultera è la misera, la persona bisognosa di misericordia. Il mondo è così: non c’è posto per l’accusatore del fratello; c’è solo posto per chi è misero e ha bisogno di un giudizio di misericordia; quel giudizio di misericordia che Gesù è venuto a portare. C’è un gesto di perdono di Dio per tutti gli uomini: lasciatevi perdonare!
La nostra collocazione vera non è quella dell’accusatore, non possiamo accusare nessuno, perché siamo nella posizione di quella donna peccatrice, adultera, e quindi bisognosa solo di riconciliazione e di perdono. Chi era peccatore è costretto ad andarsene, è rimasta sola quella donna bisognosa di misericordia. Purtroppo il processo per Gesù non finirà qui; anche questo episodio attirerà su di lui odio e inimicizia dei suoi avversari.
Liberando quella donna dalla condanna in realtà Gesù la rivolge su di Sé: Egli è Colui che ha preso su di Sé le nostre colpe. Il pericolo è scongiurato. Gesù e la donna restano soli; i curiosi, i maligni, i violenti si sono allontanati.
vv. 10-11: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?… «Nessuno, Signore»…”. Gesù era chino a terra, probabilmente come lo era lei, gettata per terra e umiliata. Ora si “rialza” e questo verbo evoca il suo rialzarsi dal sepolcro nel giorno della sua Risurrezione. Gesù in segno di rispetto, la chiama “donna”. Lo aveva già fatto con sua Madre (Gv 2,4), con la samaritana (Gv 4,21), lo farà con Maria di Magdala il mattino di Pasqua (Gv 20,15).
Rivolgendosi a lei in questo modo Gesù le restituisce la sua piena dignità, la fa risaltare davanti a sé per quella che è: non un oggetto, un’adultera, non una peccatrice o quanto può corrispondere all’infedeltà, ma una donna.
La donna lo chiama “Kyrios”, “Signore”, in quanto Signore vittorioso sul peccato e sulla morte. A ragione le può dare il perdono e restituirla alla vita, libera da quanti attentavano ad essa. Unica è l’esperienza di questa donna che si è sentita guardata dall’Amore da un amore puro, fedele, di totale dedizione, che non ha mai tradito, che non tradirà mai perché è l’amore di Dio.
“Neanch’io ti condanno”. È un vero atto di perdono, è un gesto di misericordia di Gesù nei confronti di questa donna. Però fa riflettere, perché chi è in grado di perdonare se non colui che è stato offeso; solo chi ha ricevuto l’offesa è in grado effettivamente di perdonare; non posso perdonare il male che tu hai fatto a qualcun altro, questo è comodo, è facile, non inquieta nessuno. Il perdono vero è il male che tu hai fatto a me, che io ho pagato, che ho sofferto; questo può diventare perdono autentico.
Gesù perdona proprio per questo, perché è venuto a prendere sopra di sé il peccato degli uomini; perché questo peccato lo ha portato nella paura, nell’angoscia e nella sofferenza, e lo porterà fino nella morte È scritto: “Ha portato i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce” (1Pt 2,20). Solo per questo Gesù è in grado di perdonare e può esprimere l’amore di Dio che vince sul peccato dell’uomo. Non è il Dio indifferente, ma è il Dio che ha sperimentato e preso sopra di sé la miseria umana.
va’ e d’ora in poi non peccare più»”. Ci sta qui un imperativo, un nuovo comando: dal comando di Mosè al comando di Gesù. Però, dietro a quest’imperativo abbiamo il dono della guarigione interiore. La grazia di Dio ha fatto di te «una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17). Sono parole che vogliono liberare, creare un cuore nuovo, uno spirito e una libertà nuova.
Con il per-dono Gesù dà la forza di ricominciare una vita nuova, un cammino nuovo: non ci sei più dentro nella realtà del peccato, sei fuori; e non per una tua capacità, non per una tua buona volontà, ma per grazia. Questa espressione la ritroviamo quando Gesù vede quel paralitico ammalato da 38 anni e gli dice: “alzati, prendi il tuo letto e va’ a casa tua” (Mt 9,6); gli dà un comando, ma gli fa anche il dono della guarigione, perché possa alzarsi e cominciare a rivivere come sano; nel momento in cui gli comanda gli dona la forza di vivere.
L’ammonimento che Gesù le fa: “non peccare più”. Il peccato vuole dire: fare soffrire l’uomo, umiliare e schiacciare le persone, cancellare la rivelazione di Dio in mezzo al mondo. Non si può diminuire la gravità del peccato. Ma proprio lì appare la forza dell’amore di Dio e del perdono che Cristo è venuto a portare. Dio è infinitamente più grande del nostro peccato ed esso viene ingoiato dal suo immenso amore. Ma all’uomo resta pur sempre la libertà di allontanarsi da Lui. È questa la lotta che abbiamo intrapreso all’inizio di questa Quaresima: “scegli dunque il bene e la vita” (cfr. Dt 30,19).
-Per la riflessione personale e il confronto:
Che spazio ha l’ascolto nel nostro vissuto comunitario?
Quale ostilità nel nostro cuore ogni volta che pensiamo di radunarci attorno a Gesù Maestro e che in realtà siamo radunati attorno ai nostri interessi?
Quante volte ci ritroviamo al posto degli scribi e dei farisei tendendo tranelli?
Imitiamo lo stile di Dio usando misericordia verso gli altri per rendere vere le parole del Padre nostro: “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”?
Gesù condanna il peccato e salva il peccatore. E’ questo il nostro comportamento, così pronti alla condanna? E’ questa la nostra giustizia o non è – alle volte – proprio all’opposto?
Pregare
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
Contemplare-agire
Riconosciamo consapevolmente la nostra miseria e accettiamo che il Signore la ricopra con la sua misericordia, potremo a nostra volta diventare capaci di compassione verso tutti come scrive l’Apostolo Paolo: “con le viscere di misericordia di Cristo Gesù” (Fil 1,8).